Umschlag

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualunque somiglianza con persone vive o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Dello stesso Autore:
Berlino 1944. Caccia all’assassino tra le macerie
I figli di Odino. L’ex commissario Oppenheimer e la fine del Reich

Titolo originale: Endzeit
© 2017 Knaur Verlag. Ein Imprint der Verlagsgruppe Droemer Knaur GmbH & Co. KG, München

© 2018 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati
Italian edition by arrangement with Il Caduceo Agenzia Letteraria

Prima edizione: ottobre 2018

Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-7408-0489-3

Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Via Amedeo Avogadro 62
00146 Roma
www.emonsedizioni.it

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HARALD GILBERS

ATTO FINALE

L’ex commissario Oppenheimer e l’Armata Rossa a Berlino

Traduzione di Angela Ricci

Personaggi principali

Richard Oppenheimer – ex commissario di polizia criminale, ebreo

Hildegard von Strachwitz, detta Hilde – medico, amica di Richard Oppenheimer

Colonnello Aksakov – ufficiale dell’NKVD

Capitano Pogodin – ufficiale dell’NKVD

Lisa Oppenheimer – moglie di Richard Oppenheimer

Dieter Roski – ex dipendente delle poste del Reich

Timofej Grigoriev – disertore dell’Armata Rossa

Artem Rudenko – disertore dell’Armata Rossa, scagnozzo di Grigoriev

Dem’jan – disertore dell’Armata Rossa, scagnozzo di Grigoriev

Gerda – amica di Hilde, trafficante del mercato nero

Michalina – compagna di cella di Hilde, polacca

Barbe – ex compagna di cella di Hilde

Rita, detta Rio Rita – ballerina al locale di Ede

Kirill Novikov – ufficiale dello SMERŠ

Jaša – ufficiale dell’Armata Rossa

Georg – agente dei servizi segreti

Ede – malfattore

Paule – scagnozzo di Ede

Piccolo Hans – scagnozzo di Ede

Karlheinz – scagnozzo di Ede

Gli organismi dello stato sovietico

Komsomol: sigla dell’Unione della Gioventù Comunista Leninista, organizzazione giovanile del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Fondata nel 1918, fu sciolta nel 1991.

NKVD: sigla del Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, fondato nel 1934 per assolvere alle funzioni di Ministero dell’Interno. Responsabile delle forze di polizia, gestiva direttamente i campi di lavoro e di detenzione dei prigionieri di guerra sovietici, compresi i campi speciali istituiti alla fine della Seconda guerra mondiale. Di esso faceva parte anche l’importantissima divisione della GPU, la polizia politica dell’Unione Sovietica, che si occupava della lotta ai controrivoluzionari. La GPU aveva sostituito la Čeka; in seguito venne sostituita a sua volta dal KGB.

SMERŠ: contrazione dell’espressione “morte alle spie”, la sigla identificava il servizio di informazioni e controspionaggio militare dell’Armata Rossa, fondato ufficialmente nel 1943, ma probabilmente operativo già da prima. Fu sciolto nel maggio del 1946.

PRIMA PARTE

Fuoco

1

Berlino

Venerdì 20 aprile 1945

12 giorni alla resa della città

Il suo mondo si era ridotto a poche centinaia di metri quadrati, ma in quelle ultime sei settimane Oppenheimer aveva imparato a farseli bastare. L’orizzonte non era che uno squallido muro di pietra calcarea, il cielo una volta di mattoncini rossi sorretta da pilastri di ferro.

E al di là di quell’emisfero delimitato da cumuli di materiale da costruzione spirava un alito di fuoco scatenato dall’uomo. La cantina di fermentazione di quel birrificio in disuso non era stata esattamente progettata per dare rifugio a clandestini come lui e sua moglie Lisa, ma era l’unica alternativa che avevano. Nonostante l’accortezza di allestire la loro improvvisata cucina da campo proprio sotto una presa d’aria laterale, già dopo pochi giorni il fumo denso e l’odore di cibo avevano coperto gli effluvi aspri della birrificazione. L’aria adesso era così densa che si poteva tagliare con il coltello.

Sulla volta celeste artificiale, a dieci metri di altezza, non brillava la luce del sole né quella delle stelle, perciò le cifre luminose del suo orologio da tasca non erano di alcun aiuto. L’orientamento delle lancette rappresentava ormai un’indicazione del tutto arbitraria, il cui significato reale era andato perduto. C’erano però altri indizi grazie ai quali era ancora possibile distinguere il susseguirsi delle giornate oltre le pareti della cantina. Talvolta un tenue chiarore riusciva a filtrare dalla presa d’aria, ma il segnale più evidente dell’inizio di un nuovo giorno rimaneva l’accensione delle lampade al soffitto. Oppenheimer lasciava sempre l’interruttore acceso, perché la corrente elettrica ormai era disponibile solo sporadicamente e quando i bulbi di vetro si illuminavano, bontà loro, si poteva dedurre che dietro quelle spesse mura stesse facendo giorno, perché di mattina la centrale elettrica di solito era più generosa nell’elargire la corrente. Negli ultimi tempi però i periodi di buio totale tra un’accensione e l’altra si facevano sempre più lunghi.

La sera invece toccava alle sirene, i cui ululati giungevano persino laggiù. Quando suonavano, voleva dire che fuori era in corso il bombardamento quotidiano, che aveva inizio con il favore delle tenebre. Di lì a poco quindi le fondamenta della cantina avrebbero ricominciato a tremare, ma nonostante ciò lui si sentiva più al sicuro là sotto, in mezzo ai tini per la fermentazione, che non tra la folla spaventata in qualche bunker di cemento. E di certo quel posto offriva una protezione migliore del soffitto di legno intonacato della Judenhaus, in cui era stato costretto ad abitare per diversi anni.

Nel frattempo sirene e bombardieri non erano più gli unici suoni che annunciavano la guerra. Da qualche giorno il vento che soffiava da est portava in città anche il rumore di colpi d’artiglieria. Sebbene Oppenheimer non vedesse l’ora di essere liberato dall’oppressione nazista, quei boati sempre più forti lo turbavano. Senza una radio, non aveva la minima idea di cosa stesse accadendo sul fronte.

Anche quella mattina la corrente tornò, perciò fu la luce artificiale a svegliarlo. Lisa dormiva ancora, avvolta in pesanti coperte per via del freddo e dell’umidità, al punto che a malapena si riusciva a distinguere la sua sagoma. Il loro giaciglio improvvisato, fatto di cassette di legno accostate l’una all’altra, era di sicuro meglio che dormire direttamente sul cemento, ma di certo non poteva definirsi confortevole.

Oppenheimer appoggiò il gomito sul legno e si mise a sedere, poi svolse strato dopo strato il suo bozzolo fatto di stracci e brontolando si massaggiò la schiena indolenzita. Pochi istanti dopo sentì il freddo penetrare sotto la giacca e rabbrividì. Con una coperta sulle spalle, si avvicinò alla stufa per aggiungervi del carbone. Il fumo pungente gli ferì gli occhi, ma fu comunque grato per il calore. Durante una delle sue spedizioni al piano di sopra, nei locali abbandonati del birrificio, aveva scovato qualche residuo di combustibile, ma si trattenne dal gettarne troppo tra le fiamme. Per quanto facesse freddo, era meglio conservarne una piccola scorta, in fondo non poteva sapere per quanto ancora sarebbe stato necessario rimanere lì sotto, quanto a lungo sarebbe durata la battaglia di Berlino.

Tutto a un tratto si riscosse dal suo torpore, gli pareva di aver sentito qualcosa. Ma era impossibile, erano da soli lì sotto. La porta della camera intermedia per il controllo della temperatura era sbarrata e in ogni caso le cerniere cigolavano così tanto che di sicuro il rumore li avrebbe svegliati, se mai qualcuno fosse entrato.

Aveva a malapena avuto il tempo di formulare questi pensieri, che udì di nuovo lo stesso rumore. Qualcosa suonava. Un trillo acuto, che pareva giungere da qualche angolo remoto della cantina, ma di cui arrivava alle sue orecchie solo un’eco lontana, a causa dei giganteschi tini.

“Il telefono,” mormorò Lisa ancora nel dormiveglia. Quando si rese conto di ciò che aveva detto si drizzò a sedere sorpresa, stringendosi le coperte ancora di più intorno al corpo.

Anche Oppenheimer era stupefatto e non sapeva cosa lo lasciasse più sbalordito, se l’idea che lì sotto ci fosse un telefono o il fatto che qualcuno avesse composto proprio quel numero. In preda alla confusione, si avviò nella direzione da cui pareva provenire il suono ed effettivamente, appeso alla parete e seminascosto da un tino, trovò un apparecchio di cui non si era accorto prima, complice la penombra perenne. Non appena riuscì a localizzarlo, il telefono smise di squillare. Qualche istante dopo udì i passi di Lisa e la vide lanciare uno sguardo al di sopra della sua spalla, verso l’apparecchio.

“Secondo te chi poteva essere?” sussurrò spaventata.

Lui non ne aveva idea. Senza ombra di dubbio lì sotto c’erano soltanto loro due, ma qualcuno da fuori stava cercando di penetrare in quella cantina.

Un nemico o un amico?

Anche Lisa era perfettamente consapevole del pericolo. “Forse è meglio non fare nulla,” disse. “Altrimenti capiranno che siamo qui.”

A chiamare poteva essere stato qualcuno della Gestapo o del SD, sebbene fosse altamente improbabile che stessero tentando di rintracciare ebrei clandestini come lui per telefono. L’ex commissario si schiarì la gola, incerto sul da farsi.

“E se fosse stato Ede? Chi altri potrebbe conoscere questo numero?”

Oppenheimer annuì, come a confermare quell’ipotesi decisamente meno allarmante. Ede. Sì, non poteva che essere quel furfante, visto che era stato lui a procurare loro la sistemazione nel suo covo segreto. Ede il Grande, questo era il suo soprannome nell’ambiente criminale, e i suoi complici erano gli unici a sapere che là sotto c’era qualcuno. E di certo conoscevano il numero di telefono.

“Se era Ede a chiamare, dev’essere per qualcosa di importante,” rifletté ancora Lisa.

“È probabile. E se è così importante ci riproverà. Però…” Oppenheimer non fece in tempo a finire la frase che il telefono vibrò di nuovo, ricominciando a squillare.

L’ex commissario era combattuto, non sapeva se fosse il caso di alzare il ricevitore, poi gli venne un’idea: avrebbe dato un nome falso e cercato di capire chi fosse a chiamare. Se era Ede, l’avrebbe riconosciuto dalla voce.

Prese un bel respiro, alzò la cornetta e si presentò con il primo nome che gli passò per la mente. “Pronto, parla Schulze.”

In sottofondo c’era un tale baccano che probabilmente all’altro capo della linea non avevano nemmeno capito il nome inventato. Oppenheimer sentiva risate maschili, anzi no, non risate ma grida di giubilo.

“Pronto?” ripeté perplesso. Per via di tutto quel chiasso, la persona parlava molto vicino al ricevitore, ma non si capiva nulla ugualmente. Oppenheimer intuì comunque che doveva trattarsi di un certo Ivan.

“Ivan zdes’!” aveva gridato la voce roca, che poi aveva pronunciato frasi in russo. Lui aveva compreso soltanto “bestia fascista”. Conosceva qualche parola di quella lingua, perché all’inizio degli anni Venti un gran numero di emigrati si era insediato nei quartieri di Charlottenburg e Schöneberg, e varie espressioni russe erano entrate nel gergo comune. Lo sconosciuto concluse esclamando: “Smert’ nazitskogo vraga!” ovvero “Morte al nemico nazista”, e Oppenheimer riappese d’istinto il ricevitore. Non voleva più sentire quella voce così vicina all’orecchio, rappresentava certamente un pericolo. Quell’uomo non doveva entrare nella cantina del birrificio per nessun motivo.

Lisa lo stava fissando con aria interrogativa. “Chi era?”

Tutto a un tratto Oppenheimer aveva la gola secca. Deglutì, senza sapere cosa rispondere. Che senso aveva ribadire di nuovo l’ovvio? Il giorno prima le sirene avevano annunciato l’allarme carri armati e da allora l’intera città era in perenne allerta. La fine dei giochi era vicina, l’inferno scatenato da Hitler non avrebbe tardato ad abbattersi su di loro.

Stava per realizzarsi ciò di cui tutti bisbigliavano fin da gennaio, dopo l’offensiva invernale dell’Armata Rossa, senza il coraggio di parlarne apertamente. Il fronte orientale si era spostato inesorabilmente verso di loro e adesso, a pochi chilometri di distanza, migliaia di tonnellate di artiglieria pesante, armi e munizioni facevano tremare la terra. Quel colosso annientatore si sarebbe fermato solo dopo aver raggiunto il suo obiettivo: il distretto governativo di Berlino.

Lisa continuava a guardarlo in attesa di una risposta. Lui alzò le spalle. “Arrivano i russi,” disse.

Ognuno si preparava a modo suo all’imminente disfatta. Chi poteva cercava di fuggire il più lontano possibile dalla capitale, prima che la trappola scattasse e le truppe russe finissero di circondare la città.

C’era solo un uomo, al volante di una decrepita Adler Trumpf, che procedeva nella direzione opposta, ma anche per lui quella era una corsa contro il tempo: sperava di raggiungere il centro città e di trovare un nascondiglio prima che l’Armata Rossa facesse il suo ingresso a Berlino. Esporsi volontariamente al pericolo in quella maniera era una cosa da pazzi, ma era anche l’unico modo per far funzionare il suo piano.

L’uomo si spostò sulla destra per evitare una barriera anticarro. La milizia popolare aveva posizionato ostacoli del genere a tutti gli incroci più importanti, ma quei vagoni del tram appesantiti di macerie non sembravano in grado di fermare neppure un alito di vento, figurarsi i colpi di un lanciarazzi Katiuscia.

Guardò la folla di gente carica di valigie che si affrettava nella direzione opposta. Sapeva che quelle persone difficilmente avrebbero fatto in tempo ad attraversare l’anello di difesa interna che correva lungo il percorso della S-Bahn. Molto probabilmente tutti gli uomini abili alle armi sarebbero stati fermati al posto di blocco e rimandati indietro dalla Feldgendarmerie. L’ordine di Goebbels di non permettere a nessun uomo in grado di combattere di lasciare Berlino sarebbe stato eseguito alla lettera. C’erano già stati diversi arresti e ottenere l’esenzione dall’obbligo militare di difesa della città era praticamente impossibile. A quanto pareva c’era ancora abbastanza personale per controllare i documenti dei viaggiatori.

Due giorni prima, lui stesso era riuscito per miracolo a raggiungere la cittadina di Stadtilm, in Turingia, e soltanto perché aveva potuto esibire i documenti richiesti, ovvero il lasciapassare delle poste del Reich. Per fortuna nessuno si era accorto che si trattava di un vecchio modulo di cui aveva modificato la data.

Sulla via del ritorno verso Berlino, invece, non aveva subito neanche un controllo. A nessuno poteva venire in mente che un disertore come lui potesse tornare di sua spontanea volontà in quel girone infernale.

L’uomo al volante sorrise e pensò che in fondo era tutta una questione di prospettiva. Dopo la sconfitta potevano verificarsi diversi scenari e lui sperava di aver scelto il migliore.

Fino a quel momento il clima era rimasto quello tipico di aprile, ma ora, intorno a mezzogiorno, il sole faceva capolino tra i cumuli di nubi bianche. Quando il compleanno del loro dittatore cadeva in una giornata soleggiata, la gente diceva che era “il bel tempo del Führer”, ma forse a breve si sarebbe parlato del “bel tempo di Stalin”. L’epoca dei festeggiamenti di Stato, organizzati ogni anno per l’occasione, era ormai conclusa e pareva abbastanza certo che il cinquantaseiesimo compleanno di Hitler sarebbe stato anche l’ultimo.

Nonostante tutto però quel giorno i pezzi grossi del partito si sarebbero presentati un’ultima volta a rendere omaggio al loro autoproclamato Führer, per poi correre in fretta e furia all’aeroporto di Tempelhof, dove vari aeroplani li attendevano con il motore acceso.

A quel pensiero l’uomo scrutò il cielo. In realtà era inutile, perché il velo grigio delle reti mimetiche non permetteva di scorgere i singoli apparecchi in volo, se non con grande fatica. Ai lati delle strade si vedevano i camini ergersi solitari in aria, mentre tutto intorno a essi, ciò che restava delle pareti delle case assomigliava a un cumulo di stracci. Il ministro della Propaganda Goebbels aveva confezionato un ritratto dell’eroica resistenza degno di un racconto epico e in effetti in certi giorni le colonne di fumo facevano assomigliare il paesaggio a qualche dipinto di battaglia dei secoli scorsi. I combattenti però erano diversi, non indossavano uniformi ordinate, né avevano l’aspetto dei muscolosi giganti della mitologia greca. La tanto invocata “lotta eroica contro l’offensiva bolscevica di massa” veniva combattuta da ragazzini dentro uniformi troppo grandi, da figure spettrali ormai sfinite, da anziani e da storpi della milizia popolare. Ma persino tra loro c’era ancora gente così cieca da essere pronta a dare in pasto all’ideologia altre vittime sacrificali.

Lui almeno non era dei loro. Non più.

La polvere di calce che aleggiava ovunque nell’aria si mischiava al sudore e ben presto la sua fronte si ricoprì di una pellicola appiccicosa.

A quanto pareva, aveva scelto proprio il momento giusto per mettere in atto il suo piano. L’opzione più sicura prevedeva di farlo il più tardi possibile, in modo che i tumulti della guerra cancellassero ogni sua traccia. Appena letto l’ultimo comunicato della Wehrmacht aveva capito che era ora di agire: vi comparivano i nomi di città come Müncheberg e chiunque conoscesse i dintorni di Berlino sapeva come interpretarlo. Dopo giorni di combattimento, l’Armata Rossa aveva sfondato l’ultima postazione di difesa sulle alture di Seelow, perciò non c’era più nulla tra lei e la città. Probabilmente non c’era più neanche un vero e proprio fronte, tutti erano nelle mani dei russi e provare a difendersi era solo un atto di follia suicida.

L’uomo al volante serrò le labbra.

Achtung!” sentì urlare accanto a sé.

Reagì fin troppo in fretta, le ruote dell’auto stridettero quando frenò.

Un camion passò imperturbabile a pochi centimetri dal suo radiatore. Era un trasporto di truppe. I soldati continuavano a essere spostati da una postazione di difesa all’altra, senza alcuna logica apparente. Gli uomini sul cassone non si erano quasi accorti di aver sfiorato la collisione, avevano guance cascanti e sguardi vacui. Finire in ospedale per un incidente sarebbe stata una fortuna per loro.

“Veda di stare più attento!” gridò il suo passeggero, con il berretto calcato sulla testa. “Se fa a pezzi la macchina non vedrà un centesimo!” Poi si infilò uno stuzzicadenti in bocca e riprese a guardare davanti a sé, con aria truce.

L’uomo al volante si limitò a replicare con un lieve cenno del capo. Se tutto andava secondo i suoi piani non avrebbe certo avuto problemi di soldi, ma di fronte a un delinquente come quel Paule non era saggio vantarsene. Prima di allora non aveva mai avuto a che fare con personaggi come quel masticatore di stuzzicadenti, il che dimostrava una volta di più che in tempi di magra non si poteva essere troppo schizzinosi.

Gettò una rapida occhiata nello specchietto retrovisore. La valigia era ancora sul sedile posteriore. Bene. Finché l’aveva con sé, poteva contare su una valida assicurazione. Dietro di loro qualcuno suonò il clacson. L’uomo premette l’acceleratore, ma dovette subito frenare di nuovo, per evitare di urtare un adolescente in uniforme che passava in bicicletta. Il giovanotto, che portava al braccio una fascia con la croce uncinata, sbandò di lato per lo spavento. Attaccati al manubrio, tra il fanale e l’asse della ruota anteriore, c’erano due lanciarazzi, che sembravano quasi far parte dell’equipaggiamento standard della bici.

Paule fece una smorfia e parve sul punto di dire qualcosa, poi però preferì tenere per sé i suoi pensieri. Si limitò a indicare la strada adesso libera e i due si rimisero in marcia.

“Dove andrò a stare esattamente?” chiese l’uomo al volante. “È molto lontano?”

“È lì dietro l’angolo,” brontolò Paule. “C’è un vecchio birrificio.”

Qualche ora più tardi la corrente elettrica fu staccata di nuovo, all’improvviso così come era arrivata al mattino.

Oppenheimer e Lisa erano seduti davanti alle braci ardenti sulle quali bolliva un pentolone d’acqua, che lui aveva attinto alla pompa. Sebbene fossero in un ex birrificio, dai rubinetti usciva solo della brodaglia marrone.

“Che dici?” chiese Oppenheimer. “Per quanto ci durerà ancora?”

Lisa lanciò un’occhiata ai secchi d’acqua radunati in un angolo.

“Forse ancora tre giorni, se facciamo attenzione.”

Lui annuì. Come tutti gli abitanti di Berlino, presto avrebbe dovuto arrischiarsi di nuovo ad andare con i secchi al punto di approvvigionamento idrico più vicino. Solo che ben presto i proiettili russi avrebbero cominciato a fischiare e allora sarebbe stato molto più pericoloso; forse era meglio andare subito a rimpinguare le scorte, prima che cominciassero i combattimenti. In realtà in magazzino c’erano ancora delle casse di alcolici, ma Oppenheimer aveva qualche remora ad aprirle, perché non sapeva se si trattasse di vecchie scorte del birrificio o di qualcosa che Ede aveva nascosto lì di proposito. Avevano aperto solo una bottiglia di whisky, perché era l’unica cosa che avevano per lavarsi i denti. Il distillato quantomeno li disinfettava, anche se a Oppenheimer fare i gargarismi con quel liquido che bruciava la gola richiedeva uno sforzo notevole. Lui detestava i superalcolici, sebbene la sua amica Hildegard von Strachwitz lo invitasse da una vita ad assaggiare la sua grappa fatta in casa.

Il pensiero di Hilde gli fece chinare il capo.

“Chissà come se la sta cavando,” mormorò tra sé e sé. Lisa annuì con aria comprensiva. Anche se suo marito non aveva pronunciato alcun nome, sapeva bene a chi si riferisse. Nelle ultime settimane si era posto più volte quella stessa domanda. I ricordi erano ancora freschi nella sua memoria: l’accusa di omicidio, il tentativo di trovare prove che la scagionassero e infine l’attesa, mentre lei affrontava il Tribunale del Popolo e lui non poteva fare altro che sperare che quella farsa andasse a finire bene.

Speranza vana.

E una volta terminato il processo, lui e Lisa erano stati costretti a rifugiarsi in fretta e furia nella cantina di Ede. Da allora non aveva più avuto alcun contatto con Hilde, né con i suoi ex collaboratori. L’avvocato di Hilde, Gregor Kuhn, aveva intenzione di presentare la domanda di grazia, ma Oppenheimer non aveva idea dell’esito di quella vicenda, se fossero riusciti a far posticipare l’esecuzione della condanna a morte, in attesa della fine della guerra.

I suoi pensieri furono interrotti dal tonfo attutito di una porta pesante. Doveva essere quella esterna dello scarico merci. Quell’ingresso disponeva di due porte, perché in origine era stato usato come camera per il controllo della temperatura.

Oppenheimer tese l’orecchio nell’oscurità oltre i tini di fermentazione. Probabilmente era Paule.

Per ordine di Ede si presentava di tanto in tanto con dei viveri, perché meno loro si facevano vedere in superficie, meglio era per i suoi intricati traffici con il mercato nero. Gli onnipresenti controllori avevano la spiacevole abitudine di incuriosirsi se all’improvviso notavano un volto sconosciuto nel loro quartiere e a quanto pareva le riserve custodite in quel magazzino erano così preziose che a Ede conveniva provvedere all’alimentazione dei suoi protetti, piuttosto che correre il rischio di farli aspettare per ore in coda davanti ai negozi dove si distribuivano le razioni.

Oppenheimer aggrottò la fronte. C’era qualcosa di strano.

Quando Lisa notò il suo sguardo allarmato si accorse anche lei che qualcosa non andava. Fu così saggia da non lasciarsi sfuggire neanche un suono, ma lui si portò comunque un dito alle labbra per precauzione.

Passò un tempo insolitamente lungo prima che la porta interna si aprisse. Erano davvero sicuri che fosse Paule? Quel ritardo non suggeriva forse che si trattasse di estranei, che si muovevano con cautela su un terreno sconosciuto?

A quel pensiero il respiro di Oppenheimer si fece più affannoso. Il rumore dei passi lo mise definitivamente in allerta.

Non era una persona sola. Nonostante il rimbombo del corridoio, gli parve di distinguere chiaramente almeno due serie di passi e non riusciva a immaginare che Paule potesse aver svelato così tranquillamente a qualcun altro quel rifugio segreto.

Dovevano nascondersi.

Non avevano modo di spegnere i fornelli senza tradire la propria presenza, ma almeno l’oscurità adesso tornava utile.

Oppenheimer raccolse le coperte e trascinò via Lisa. Insieme corsero dietro l’ultimo tino in fondo alla stanza, si acquattarono contro la parete e scomparvero sotto strati di coperte. Poteva funzionare. Magari gli intrusi avrebbero pensato che era solo un cumulo di stracci.

Dall’ingresso arrivò il cigolio dei cardini rugginosi della porta, che riecheggiò sulle pareti di pietra. Oppenheimer alzò la testa e lanciò un’occhiata oltre il mucchio di coperte preparandosi all’arrivo degli intrusi.

A ciascuno dei loro passi esitanti si accompagnava lo scricchiolio delle macerie calpestate. L’ex commissario riusciva a immaginare ogni singola mossa al di fuori del suo campo visivo, la sua vivace fantasia l’aveva già salvato diverse volte da situazioni rischiose. C’era qualcuno fermo sulla porta d’ingresso che scrutava nella penombra, aveva notato i fornelli e capito di non essere solo in quella cantina.

Oppenheimer trattenne il fiato, i nervi a fior di pelle.

Il rumore che si udì a quel punto fu del tutto inaspettato: qualcuno prese a fischiettare l’allegra melodia di Davon geht die Welt nicht unter e senza alcuna cautela uno degli intrusi avanzò nella cantina. Per un breve istante il fascio di luce di una torcia colpì il pavimento. “Dove vi siete cacciati? Fatevi vedere,” risuonò una voce.

Oppenheimer riprese a respirare: era Paule. E con lui c’era un’altra persona.

“È tutto a posto,” sussurrò a Lisa rialzandosi in piedi. Tuttavia, non sapendo ancora chi fosse il nuovo arrivato, mantenne una certa cautela e con la coperta sulle spalle strisciò un centimetro dopo l’altro intorno al tino. Davanti alla cucina da campo intravide una sagoma che osservava l’ambiente tutto intorno. Era controluce, perciò ne riusciva a distinguere soltanto il profilo magro. Lo sconosciuto aveva una valigia, che a prima vista sembrava quella di un dottore. Portarsi dietro medicine e bende era certo una precauzione opportuna, anche lui e Lisa avevano preso l’abitudine di tenere sempre a portata di mano le proprie valigette di emergenza, con dentro i loro averi più importanti. Era una misura di sicurezza.

Oppenheimer fu abbagliato da una luce e socchiuse gli occhi. Paule l’aveva individuato. Alzò di scatto una mano per proteggersi dal fascio della torcia.

“Dimmi un po’, Paule, da quando ti piacciono le canzoni di Zarah Leander?” chiese a mo’ di saluto.

Lo sconosciuto si voltò sorpreso e per un attimo parve volersi portare d’istinto la valigia al petto. Poi, notando la reazione rilassata di Paule, abbassò il braccio.

“Cominciavo a pensare che ve ne foste andati.”

Per qualche ragione l’ostentata allegria di Paule lo irritava moltissimo. “Pensi che me ne possa andare quando mi pare?” rispose bruscamente.

“No, commissario, certo che no,” lo placò l’altro poco convinto. “Ma non si può mai sapere. Le ho portato qualcosa nel caso le servisse.” Paule porse a Oppenheimer un cartoncino.

“Che cos’è?” chiese lui.

“È un documento d’identità. Potrebbe essere costretto a uscire di qui e rischia che la mandino a fare l’eroe.”

Oppenheimer non aveva mai sentito quell’espressione, ma intuì cosa intendeva Paule. SS e uomini della Wehrmacht avevano cominciato a fermare chiunque incontrassero per strada, per spedirlo a difendere la città.

Si avvicinò ai fornelli e alla luce del fuoco esaminò l’intestazione. Il documento risultava emesso dal Commissario per la Difesa del Reich Joseph Goebbels, anche se la firma assomigliava più che altro allo scarabocchio di uno scolaro di prima elementare.

“Ci ha pensato Ede, ne abbiamo tutti uno. L’ho fatta bene la firma di Goebbels, eh?” chiese Paule orgoglioso.

Oppenheimer non era esattamente convinto della sua abilità di falsario, ma annuì con aria incoraggiante. Poteva solo sperare che i reclutatori che giravano per le strade non sapessero riconoscere la firma del ministro della Propaganda.

Solo a quel punto l’ex commissario tornò a rivolgere la sua attenzione al nuovo arrivato, che fino a quel momento non aveva fatto altro che osservarlo. Si rese conto di essere ancora avvolto nella coperta polverosa, simile a uno straccivendolo. Ma ci pensò Paule a chiarire la situazione. “Ho il piacere di presentarvi Kara Ben Nemsi,” disse indicando Oppenheimer con un ghigno.

Era la prima volta che l’ex commissario sentiva Paule scherzare in sua presenza, quel piccolo criminale di solito preferiva che nessuno facesse troppo lo spiritoso. Di fronte a quella sciocca battuta fece tuttavia buon viso a cattivo gioco e storse la bocca in una pallida imitazione di sorriso.

“Richard,” lo corresse. “Con chi ho l’onore?”

Lo sconosciuto chiaramente non voleva rivelare troppo di sé. “Può chiamarmi Dieter,” rispose esitante.

Quando Oppenheimer gli porse la mano, il braccio gli rimase impigliato nelle coperte. Solo adesso, alla luce della torcia di Paule, riusciva a distinguere qualcosa di più dei contorni indistinti di colui che sosteneva di chiamarsi Dieter. Nonostante le profonde rughe, gli parve che fosse sulla quarantina; lo sguardo malinconico e la postura curva gli davano un’aria mesta da avvoltoio, contraddetta solo dalle labbra piene e carnose. Il taglio di capelli non era certamente da militare, la chioma scompigliata si faceva più rada in cima e non ci sarebbe voluto molto perché la testa diventasse completamente calva. Anche le sue movenze e la voce armoniosa suggerivano che fosse un civile.

“Ho capito bene? Lei è della polizia?” chiese Dieter. La sua voce aveva assunto una nota allarmata di cui egli stesso non sembrava consapevole. Oppenheimer finse di non accorgersene e scosse la testa. “Una volta, sì. Adesso sono in attesa del Quarto Reich.”

Dieter fece un sorrisetto compiaciuto.

“E lei?” chiese Oppenheimer. “Di cosa si occupa?”

“Io? Ecco, sono un impiegato delle poste, per così dire.”

L’ex commissario notò che il tipo si era quasi sforzato di trattenere una risata, mentre gli rispondeva. Non sapeva come spiegarsi quell’improvvisa ilarità, ma intuì che non gli aveva detto tutta la verità.

2

Venerdì 20 aprile 1945

12 giorni alla resa della città

“Hai sentito?” mormorò Barbe. “Vogliono uccidere subito i politici.”

Hilde alzò lo sguardo. Aveva le lacrime agli occhi, ma era per via degli effluvi delle cipolle che stava pelando. Impiegò qualche istante prima di decifrare appieno il significato di quelle parole sussurrate e non si accorse nemmeno che una cipolla le era scivolata tra le dita ed era caduta a terra con un tonfo.

Il momento era arrivato. Era dall’inizio del suo soggiorno in carcere che temeva quella notizia. Se era vero che era giunto il turno dei prigionieri politici, voleva dire che era in grave pericolo, perché era stata condannata per esternazioni disfattiste, un reato per cui era prevista la pena di morte. Fino a quel momento l’esecuzione era stata posticipata solo grazie a un sotterfugio del suo avvocato.

Socchiuse gli occhi e aguzzò la vista finché non riuscì di nuovo a riconoscere la sua compagna di prigionia, una ragazza grassottella di nome Barbe con cui aveva fatto amicizia al penitenziario di Moabit. Barbe aveva venticinque anni, all’incirca la metà dei suoi, e forse cercava in lei una figura materna in quell’ambiente ostile. Ma adesso non aveva più importanza. Durante quelle tredici settimane di prigionia Hilde aveva imparato che era impossibile abituarsi alla paura costante della morte, tutt’al più si poteva provare a reprimerla. In quel momento tornò a invaderle la mente con gelida chiarezza, spazzando via tutto ciò che aveva visto e provato tra le mura di quella prigione.

Era pomeriggio e le detenute si trovavano eccezionalmente nelle cucine. Dopo la sveglia Hilde e le altre si erano dedicate come al solito a rammendare uniformi, ma dopo un’ora lei e Barbe erano state mandate a pelare cipolle.

Sul focolare di quella cucina dall’arredamento spartano ribolliva un pentolone con la zuppa annacquata destinata alle prigioniere, mentre un tegame più piccolo conteneva il pasto del personale di guardia. Barbe si era rallegrata per quel cambio di programma, perché almeno in cucina poteva sedersi vicino a una finestra aperta e scaldarsi un po’ le spalle al sole.

Hilde stava per farle una domanda, quando con la coda dell’occhio notò una sorvegliante ausiliaria che si avvicinava e serrò nuovamente le labbra. La conosceva e sapeva che al contrario di quasi tutte le altre era più gentile, ma era meglio tacere finché fosse rimasta in quella stanza.

La donna si fermò proprio davanti a lei, la fissava con un certo disappunto e un’espressione derisoria sotto la cuffietta bianca inamidata.

“Ma insomma, signora von Strachwitz!” disse in tono di rimprovero.

Lì per lì Hilde non capì, poi si accorse che per terra, tra i suoi piedi, c’era una cipolla pelata a metà. Apprezzò che l’ausiliaria l’avesse chiamata per nome, in posti del genere non essere considerati soltanto un numero o parte di una massa indistinta da amministrare era già una benedizione. Il primo istinto fu di chinarsi, ma il familiare impulso a resistere glielo impedì. La sorvegliante doveva essere una brava persona, Hilde tuttavia non intendeva renderle la vita facile. Per principio, da che si trovava lì, si era fatta un punto d’onore di svolgere i compiti che le venivano imposti sempre e comunque di malavoglia. Del resto a cosa poteva servirle compiacere le sorveglianti? Peggio della pena di morte non c’era niente. Si era quindi sentita in obbligo di puntare i piedi e di turbare il più possibile il normale corso della vita tra quelle mura, per non perdere il rispetto di se stessa.

Pertanto si limitò a schiarirsi la voce e se la prese con la cipolla mormorando un “Maledetta!”

La sorvegliante si allontanò sorridendo e si avvicinò alle cuoche. Hilde si sedette e rimase immobile a fissare la cipolla. Era parecchio malconcia, come tutte le provviste che ricevevano, la polpa era molliccia e dalla cima spuntava già un germoglio verde.

Strinse il coltello con la destra, finché le dita non le fecero male. Quella di poco prima era stata un’ulteriore inaspettata conferma di quanto la sua vita fosse in grave pericolo.

Nelle settimane precedenti aveva notato che i prigionieri politici sparivano sempre più di frequente, ufficialmente trasferiti in altre prigioni per evitare che cadessero in mani nemiche. La legislazione nazionalsocialista, secondo la quale anche solo dubitare della vittoria della razza superiore era un crimine punibile con la morte, aveva riempito oltremisura i penitenziari di tutto il territorio, sempre più ristretto, del Reich. I detenuti si ritrovavano così a vagare da una gattabuia all’altra, in un’odissea senza meta.

Hilde quindi era pronta a sentir chiamare il proprio nome e a passare per le forche caudine delle strade di Berlino, in divisa da prigioniera e zoccoli di legno, fino al molo delle chiatte. Adesso però la città era circondata, tutte le vie d’uscita erano bloccate.

La situazione si faceva sempre più preoccupante, tutto intorno a lei il Reich millenario barcollava in preda a una vertigine di morte. I nazisti ormai sull’orlo dell’annientamento si sarebbero davvero messi a regolare i conti con i loro vecchi oppositori? Hilde sapeva che ne erano certamente capaci e allora nemmeno il migliore degli avvocati avrebbe potuto salvarla. Nemmeno Kuhn, che in quanto membro del partito disponeva di ottime aderenze e le aveva promesso di fare di tutto per aiutarla. Ma di fronte agli ultimi sussulti dell’apparato di potere non avrebbe potuto far nulla.

Valutò le possibilità a sua disposizione: evadere era fuori discussione, tantomeno con quel coltello dalla lama così smussata con cui non riusciva nemmeno a pelare decentemente una cipolla. Cercò allora di minimizzare, forse era solo una delle tante voci infondate che giravano in tutte le prigioni, o magari Barbe aveva capito male. In effetti era possibile, a dir la verità non era esattamente la più sveglia del carcere.

Quando la sorvegliante si spostò in una stanzetta adiacente insieme alle cuoche, Hilde ebbe nuovamente la possibilità di sussurrarle qualcosa.

“Chi te lo ha detto?” sibilò non appena la pesante porta si richiuse con un tonfo secco.

“Ne parlava Michalina poco fa, in corridoio.”

Michalina era una polacca che condivideva con loro la cella comune, e fortunatamente col tempo aveva imparato un numero di frasi tedesche sufficiente a sostenere una conversazione. Hilde cercò di valutare le sue conoscenze linguistiche, per capire quanto era probabile che avesse riferito correttamente la notizia, ma non giunse a nessuna conclusione.

“Cosa ha detto esattamente?” chiese.

Barbe fece spallucce. “Solo che da qualche parte nella zona della Ruhr hanno giustiziato dei prigionieri all’ultimo minuto. I boia non c’erano più quindi l’hanno fatto fare ai sorveglianti e in cambio gli hanno dato delle sigarette.”

“E lei come lo sapeva?”

Barbe sembrava sconvolta, come se quella minaccia pendesse anche sul suo capo. “Non lo so, devi chiederlo a lei.”

Hilde sospirò insoddisfatta. Dovevano passare ancora parecchie ore prima che tornassero tutte in cella e fino a quel momento non avrebbe fatto altro che rimuginare e prefigurarsi orribili scenari. Un altro pomeriggio di desolazione in cui il tempo non sarebbe passato mai.

Stava per raccogliere la cipolla caduta quando si udì un boato da fuori. L’onda d’urto fece vibrare i vetri delle finestre e sbattere le imposte.

Le due donne sussultarono.

Il frastuono non si era ancora placato che la porta della cucina si aprì e la sorvegliante con il volto arrossato lanciò un’occhiata dentro. Degnò a malapena le prigioniere di uno sguardo confuso, quindi proseguì lungo il corridoio verso le celle più vicine. Tutto si era svolto in pochi secondi.

“Veniva da fuori!” esclamò Hilde accostando in fretta e furia lo sgabello alla finestra e salendoci sopra. Così riusciva a malapena a sbirciare oltre il davanzale e tutto ciò che vide furono delle torri di fumo che si innalzavano nel cielo azzurro.

“Maledizione, da che parte veniva?”

Anche Barbe era salita in piedi sul suo sgabello. Era più alta di Hilde, perciò aveva una visuale migliore. “Ne hanno lanciata una grossa, credo dalle parti del Reichstag.” D’istinto alzò la testa. “Però non vedo l’aereo.”

“Non era un aereo,” disse Hilde col cuore che batteva così forte da schizzarle quasi fuori dal petto. “Siamo già nel raggio dell’artiglieria!” si rallegrò. Provò a saltellare e a mettersi in punta di piedi, ma non riuscì comunque a vedere nulla. Alla fine si spazientì e sull’onda del momento si arrampicò direttamente sul piano di lavoro in mezzo alla cucina. Le cuoche le lanciarono un’occhiata sconcertata, era chiaro che nessuna prigioniera si era mai comportata in maniera così inappropriata. Hilde non se ne curò e continuò a fissare fuori dalla finestra, come ipnotizzata.

Fate fuori una volta per tutte quei bastardi in camicia bruna, pensò.

Non aveva intenzione di morire solo perché qualche soldato fedele al partito aveva deciso così, non quando la liberazione era così vicina.

Voleva vivere, maledizione, vivere!

L’acustica della cantina di fermentazione non era adatta alle note dell’orchestra reale del Concertgebouw e anche il direttore lasciava a desiderare: la melodiosa armonia lirica che ci si aspettava dalla Pastorale di Beethoven non era molto nelle sue corde. Nel primo movimento il maestro Willem Mengelberg faceva procedere gli strumentisti così rapidamente lungo la partitura da far venire in mente un taglialegna che si apre la strada tra la boscaglia. Quella però era l’unica incisione della Sinfonia n.6 in fa maggiore, op. 68 che Oppenheimer possedesse. Le cose miglioravano un po’ nel secondo movimento, in cui sia il compositore che l’orchestra intendevano suggerire il mormorio di un ruscello gorgogliante e nella parte finale addirittura il cinguettio di usignoli, quaglie e cuculi. A quel punto persino la sobrietà di un Mengelberg veniva meno e per qualche istante il direttore d’orchestra si abbandonava a quei suoni lussureggianti.

Oppenheimer aveva sistemato il grammofono vicino al fuoco, nonostante il rischio che la fuliggine si depositasse sui preziosi dischi che aveva sempre protetto con cura. Purtroppo si riusciva a godere di un suono decente solo se ci si sedeva vicino alla tromba dell’apparecchio, perché già a pochi metri di distanza la volta di pietra della sala prendeva il sopravvento, riducendo la musica a un brusio indistinto.

L’ex commissario era felice di possedere ancora quel grammofono vecchio modello, con l’alimentazione a manovella, altrimenti nei lunghi periodi senza corrente non avrebbe potuto ascoltare la musica. Per anni aveva conservato una registrazione della Telefunken di quella sinfonia, ma pochi mesi prima l’aveva ceduta in cambio di cibo al mercato nero, nel breve periodo in cui si era spacciato per tedesco ariano. Quella però era una storia ormai chiusa.

Poter rivedere i suoi dischi dopo i tumulti degli ultimi anni era stata una vera sorpresa. Ede il Grande non si era tirato indietro e su richiesta di Oppenheimer aveva mandato i suoi uomini a prenderli a casa di Hilde.

Hilde. Rieccoci di nuovo. Pensare a lei gli provocò una fitta allo stomaco, non si era ancora rassegnato all’idea di non poter fare più niente per la sua amica.

Per distrarsi tornò a guardare il grammofono per decidere cosa ascoltare dopo. Forse la Sinfonia delle Alpi, op. 64 di Richard Strauss? Graziosa melodia, sebbene un filo volgare e indiscutibilmente lontana dalle imponenti note sgorgate dalla penna del compositore solo pochi anni prima.

Ma in quel momento una melodia graziosa era proprio ciò di cui aveva bisogno. L’immediato futuro era già abbastanza fosco, non c’era alcuna necessità di sottolinearlo ulteriormente con i toni più minacciosi delle altre sinfonie di Beethoven. Forse era meglio l’ouverture del Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn? Ufficialmente non era più permesso ascoltarla in pubblico, perché il compositore proveniva da una famiglia di origine ebraica, ma per fortuna i dischi erano oggetti tolleranti e non si piegavano alle prescrizioni dei vertici nazionalsocialisti.

Mentre era preso da queste riflessioni, Oppenheimer si sorprendeva continuamente a lanciare rapide occhiate alla valigia di pelle nera con i fermagli d’ottone di Dieter. Non riusciva a evitarlo. Imbarazzato, spostò lo sguardo sul suo proprietario, che non pareva aver notato la sua curiosità.

Poco prima di andarsene, Paule aveva preso l’ex commissario da parte e gli aveva sussurrato qualche parola. Per Oppenheimer era stato come se gli avesse piantato una bomba a orologeria nel cervello. Nella valigia c’era qualcosa di prezioso che lui doveva tenere d’occhio per conto di Ede. Alla fine quindi non si trattava affatto di una valigetta da medico, ma cosa c’era all’interno? Nemmeno Paule lo sapeva. Tuttavia ciò che lo lasciava più perplesso era soprattutto che non gli avessero chiesto di badare al nuovo ospite. La valigetta sembrava l’unica cosa importante.

Il bruciante desiderio di darci un’occhiata non sembrava poter essere soddisfatto: Dieter non l’apriva mai, tutto ciò di cui aveva bisogno lo teneva nelle tasche a soffietto del cappotto, che sembravano non avere un fondo e dalle quali estraeva un oggetto dopo l’altro, come conigli da un cilindro.

Già da diverse ore la luce aveva smesso di filtrare dal condotto dell’aria, mentre quasi impercettibili sopra la musica del grammofono i boati dell’artiglieria aumentavano d’intensità. Oppenheimer si chiese inquieto quanto ancora ci sarebbe voluto prima che quel rumore raggiungesse il suo apice e i primi soldati russi mettessero piede in città.

Con l’approssimarsi della sera il freddo cominciò a fuoriuscire dal pavimento e i tre si spostarono vicino ai fornelli, come intorno a un fuoco da campo. Oppenheimer era contento che lo sconosciuto fosse là con loro, perché almeno si era distratto e aveva smesso di rimuginare sul futuro suo e di Lisa. Conversare gli permetteva di pensare ad altro e per fortuna Dieter era una miniera di aneddoti interessanti, sebbene nessuno di essi fornisse la minima informazione su di lui e la sua storia. A quanto pareva sapeva bene come proteggere la propria identità.

A un certo punto tirò fuori dal cappotto un quadernetto rosa pallido. “Tenga, questo le servirà,” commentò. Oppenheimer lo avvicinò alla lampada a petrolio per leggerne il titolo. Era un dizionarietto militare tedesco-russo.

“Grazie mille,” disse dopo aver chiesto se era davvero un regalo. “Una volta sapevo un po’ di russo, ma credo di aver dimenticato quasi tutto.”

Sfogliò il dizionario. “La guerra ci ha mostrato con quali semplici mezzi i soldati tedeschi riescono a farsi comprendere facilmente ovunque,” lesse, con un sorrisetto. “Quasi sempre è sufficiente usare le parole giuste, pronunciate una dopo l’altra, senza badare alle grammatica.” Scosse la testa, che maniera ingenua di descrivere la guerra, pensò. Detta così sembrava solo una grande avventura, d’altra parte quel dizionario non era dissimile da tante altre pubblicazioni a stampa. Il quadernetto che aveva tra le mani avrebbe di sicuro scatenato una notevole quantità dei famosi commenti cinici di Hilde. A lui invece venne in mente solo una battuta. “Certo, se al libretto ci aggiungi anche una pistola carica allora sono sicuro che tutti saranno pronti ad ascoltarti. Un gioco da ragazzi.”

Lisa, che si era accostata a lui, aggrottò la fronte mentre osservava il volumetto. “C’è scritto: Tremila parole per cavarsela sul campo e nella vita quotidiana. Davvero bastano?”

“Chissà,” disse Dieter sorridendo. “Certo la selezione mi lascia un po’ perplesso.”

“Sull’attenti!” mormorò Lisa scorrendo la pagina con gli occhi. Accanto alle parole tedesche c’erano i caratteri cirillici e una trascrizione della pronuncia. Provò per scherzo a formulare quelle parole straniere. “S-smirna?

“Sì, penso si dica così,” approvò Oppenheimer tornando alla prima pagina, in cui erano elencate le espressioni più importanti. “Senti qui: Ruki vverch!

“Che vuol dire?”

“Mani in alto! Ah, e finalmente so come si dice ‘obice’ in russo. Ga-ubica o qualcosa del genere.”

Scoppiarono a ridere, pareva piuttosto improbabile che un soldato tedesco potesse veramente parlare in quel modo. Nel bel mezzo di quel momento di ilarità, una vocina allarmata prese a riecheggiare nella mente di Oppenheimer. Ridere così del Führer e del popolo tedesco poteva essere pericoloso. Le probabilità non erano molto elevate, ma non era da escludere che in quella cantina insieme a loro ci fosse un membro del partito fedele alla linea, che nella peggiore delle ipotesi poteva decidere di tradirli.

In quell’istante la puntina del grammofono finì fuori solco. Invece di girare il disco e far ripartire l’Allegro, Oppenheimer decise di tastare un po’ il terreno con Dieter. Ripose il disco di Beethoven nella custodia e mise su l’ouverture del Sogno di una notte di mezza estate.

“Spero non le dispiaccia se cambio musica,” chiese.

Dieter annuì con aria accondiscendente, poi parve avere un’idea. “Per caso ha qualcosa di Franz Schubert?”

“Ah, no,” mentì l’ex commissario sfiorando con il pollice, senza rendersene conto, la cicatrice sull’anulare della mano destra, dove prima c’era l’unghia. Doveva lasciar passare ancora un po’ di tempo prima di poter ascoltare di nuovo Schubert senza pensieri, ma quella era un’altra storia, che non aveva alcuna intenzione di raccontare a quell’uomo.